Europa il rischio di un compromesso inaccettabile

[EPA-EFE ROBERT GHEMENT]

I compromessi, si sa, per definizione scontentano tutti. Ma permettono anche a ciascuno di tornare a casa propria ed affermare che ha ottenuto, seppur parzialmente, qualcosa di significativo. Il Consiglio Europeo (che si apre questa settimana), chiamato a decidere sulle sorti dell’Europa nel prossimo futuro, pronunciandosi all’unanimità (quindi necessariamente sulla base di compromessi) sia sul Recovery Plan per l’uscita dall’emergenza sia sul bilancio per i prossimi sette anni, sta portando avanti una partita pericolosa. Per noi cittadini europei, naturalmente, non per i governi che dovrebbero rappresentarli.

La partita è stata resa esplicita dal Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel: accettare la proposta della Commissione per un Recovery Plan da 750 miliardi ma allo stesso tempo lasciare il bilancio della UE per il periodo 2021-2027 all’1,07% del PIL, come indicato dall’accordo raggiunto nell’epoca pre-Covid.

Una notizia accettata con favore dalla maggior parte dei commentatori italiani, presumibilmente perché salvaguarda la nostra richiesta più urgente (allineata su questo punto a quella di Commissione e Parlamento): i 750 miliardi sul Recovery Plan.

Una notizia che dovrebbe invece essere accolta negativamente da tutta la società civile europea, se intende davvero essere espressione dei bisogni dei cittadini europei. E che dovrebbe essere rigettata dal Parlamento Europeo (aveva chiesto un bilancio al 1,3% del Pil), che almeno su questo ha l’ultima parola.

L’emergenza pandemica non dovrebbe far dimenticare che un bilancio collettivo all’1% del Pil non è sufficiente (né lo sarà in futuro) per finanziare beni collettivi “pubblici” europei, necessari perché l’Europa diventi un soggetto capace di governare, non subire, la competizione globale e di soddisfare le aspettative dei suoi cittadini.

Non si tratta più soltanto di dare un segnale politico di solidarietà europea, che nel contesto pandemico dovrebbe essere ormai scontato. Né si tratta solo di salvaguardare i livelli di spesa per programmi (come Erasmus+, Europa creativa, Citizens for Europe, etc) che hanno dato prova di fornire un aiuto cruciale alla creazione ed al consolidamento di un’identità europea, che fa ancora fatica ad emergere. Né si tratta solo di dare concreta attuazione al Green Deal della Commissione, altrimenti destinato a rimanere lettera morta (o moribonda, se parte del Recovery Plan verrà utilizzata per la transizione verde).

Si tratta invece di immaginare e mettere in atto un grande piano di investimenti pubblici e privati, in grado di mobilitare decine di migliaia di miliardi di euro: 15-20 punti di Pil. Da finanziare con il ricorso ai mercati finanziari internazionali ed a nuove risorse proprie comuni. Con tutti gli strumenti già oggi a disposizione: bilancio pluriennale, Mes, Bei; anche inventandosene qualcuno nuovo. Proposte in tal senso non mancano: da quella di Alfonso Iozzo di usare proprio il Mes come leva per investimenti da 4.000 miliardi a favore di infrastrutture sociali, culturali, di trasporto, etc a vantaggio dei sistemi locali più dinamici; a quella di Corrado Passera di estendere il bilancio a 5.000 miliardi, finanziandolo con emissioni di debito collettivo garantite da risorse proprie, per realizzare infrastrutture di rilevanza europea.

Questi sono i numeri; questa è la scala di interventi oggi necessari. E la maggior parte di essi passa per un bilancio collettivo. Il resto sono le consuete discussioni fittizie fra “frugali” e “solidali”, buone solo per alimentare il dibattito sui media, non per risolvere i problemi dell’economia europea: retoriche che ormai non dovrebbero incantare più nessuno.

La partita è altra, molto più ampia; e certo delicata. Dipende anche dalla capacità di ciascun sistema politico nazionale di “vendere” narrazioni ad-hoc che non risultino indigeste ai propri elettori (quindi, a titolo di esempio, far digerire la solidarietà europea ai paesi nordici, così come far digerire agl’italiani una qualche forma di condizionalità collettiva sulle risorse europee). E questo richiede tempo; il che lascia immaginare che non basterà la riunione del Consiglio di questa settimana per risolvere i nodi sul tavolo.

Ma, per quanto ci piacerebbe che l’Europa desse un segno concreto, immediato e solidale di risposta alla crisi, i compromessi (e i loro tempi di preparazione e negoziazione) sono inevitabili in un contesto decisionale all’unanimità. Un elemento che dovrebbe suggerire come il primo passo, decisivo, perché l’Europa diventi adulta sia cancellare l’unanimità da ogni decisione collettiva.

L’emergenza pandemica (peraltro ancora in corso) non sarà servita a nulla se non cambierà in profondità il modo con cui la Ue concepisce lo stare insieme, con cui dà corpo ed anima ad una – finora in gran parte virtuale – identità europea. E proprio quando decide sulle risorse, su come raccoglierle e come spenderle, un insieme di individui diventa una comunità.